giovedì 6 giugno 2013

Onore e disonore nel Bel Paese

Ci risiamo. Solo un paio di mesi fa, il 29 marzo, avevamo dovuto assistere, a proposito del caso Aldrovandi, “da un lato, all’onore di una madre che rivendicava silenziosamente rispetto per la memoria del figlio brutalmente assassinato, e dall’altro al disonore di coloro che manifestavano a favore dell’impunità per gli assassini”. Il sindacato autonomo di polizia Coisp aveva infatti ritenuto eccessivi persino i sei mesi di carcere inflitti ai quattro poliziotti che avevano massacrato di botte e assassinato il ragazzo, e aveva inscenato una protesta di fronte al luogo di lavoro della madre.

Ma, almeno, i responsabili erano stati condannati, anche se a una pena risibile di soli tre anni e sei mesi, poi scontati a sei ridicoli mesi per sopravvenuto indulto. Oggi, invece, i responsabili dell’analogo massacro ai danni di Stefano Cucchi sono addirittura stati assolti “per non aver commesso il fatto”.

Anche questa volta i fatti sono tristemente noti. Un ragazzo epilettico di 31 anni è arrestato il 15 ottobre 2009 per possesso di alcuni grammi di hashish, cocaina e antiepilettici (sic). Il giorno dopo viene processato per direttissima, e arriva in aula con gli occhi pesti e barcollante. Gli vengono riscontrate una frattura alla mascella, due alla colonna vertebrale e un’emorragia alla vescica. Rientrato in carcere, il 22 ottobre muore, dopo aver perso in una settimana sei chili su quarantuno.

L’ex carabiniere Carlo Giovanardi, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, inizia subito l’opera di sciacallaggio, dichiarando che il ragazzo è morto per anoressia e tossicodipendenza. Dopo le indagini, tredici persone sono variamente incriminate: gli agenti penitenziari, per il pestaggio, gli infermieri del carcere, per omissione di soccorso, e i medici dell’ospedale civile dove il giovane morì, per omissione di cure.

Oggi gli agenti e gli infermieri, accusati di “abbandono di incapace, abuso d’ufficio, favoreggiamento, falsità ideologica, lesioni ed abuso di autorità” sono appunto stati assolti “per non aver commesso il fatto”, mentre i medici dell’ospedale hanno ricevuto una condanna a due anni per “omicidio colposo”. Quanto ai famigliari della vittima, non è rimasto altro che constatare che il loro ragazzo è stato ucciso per la seconda volta.

Naturalmente, frange fasciste o fascisteggianti dell’esercito e della polizia, pronte ad abusare in senso autoritario delle loro funzioni, ci sono sempre state. Ma nell’era Berlusconi-Fini-Bossi esse hanno ricevuto immunità e impunità, e quest’era evidentemente non è finita. Il che significa che, se le cose da cambiare nel nostro paese sono molte, lo sradicamento del fascismo e delle sue manifestazioni istituzionali non è certo l’ultima di esse.

martedì 27 novembre 2012

"Ma sei italiano? E che ci fai qui in Inghilterra?"

Quando mi chiedono se val la pena venire a vivere a Londra, io rispondo sempre di sì. Vivere in un altro paese allarga gli orizzonti, mette alla prova la propria capacità di adattamento e insegna le differenze. Una cosa però è vivere 2 o 3 anni all'estero, un'altra è passarne 10 o più. Vivere a Londra è bellissimo, ma tutto ha un prezzo e quello che segue è un piccolo elenco delle "tasse" che Londra applica agli italiani (e non solo):

Si diventa "ibridi". Si vive in una sorta di limbo a metà tra le due culture, italiana e inglese. La cosa non è necesariamente negativa, anzi, se sai gestirla bene, puoi prendere il meglio delle due. Ma siamo esseri umani e siamo fatti di cuore e errori. E siamo difficili da accontentare. Londra è la nostra nuova casa e ci viviamo bene. Però sappiamo che non possiamo (e non dovremmo) dimenticare l'Italia che, volenti o nolenti, scorre nel nostro sangue. Risultato: vorremmo essere lì, un po' qua, ma 3/4 di là, con un piede a metà, la testa un po' qua, il cuore di là e anche viceversa. Insomma, un casino. In una delle pagine di questo sito ho letto una frase: "London is my town, but Italy is my country". Ognuno la interpreti come vuole. Io non so se sono al 100% d'accordo, ma per qualche ragione questa frase mi piace.

Il tempo. Sembra quasi banale dirlo, ma vorrei spiegarmi meglio. Non cadrò nel solito "qui piove sempre" perchè 1) non è vero 2) il problema non è il cattivo tempo ma la sua variabilità. Direte, vabbè, ci si fa l'abitudine. Vero, fino ad un certo punto. All'inizio ci si infastidisce un po'. Dopo 10 anni si capisce quale impatto massiccio ha la variabilità del tempo sulle cose che facciamo ogni giorno e soprattutto nel tempo libero. In Italia se ti alzi il sabato mattino e fa bello, farà bello per tutta la giornata. Allora è facile saltare in macchina e raggiungere il mare o la montagna (ovunque tu sia in Italia puoi raggiungerli in media in meno di 2 ore). L'Inghilterra ti insegna che se fa bello è bene mettere un ombrello nello zaino. Nessuna attività "outdoor" si può veramente programmare in UK. E se vivete a Londra, mare e montagna non sono un'opzione per la maggior parte dell'anno. Le montagne sono lontane (Peak District) e il mare (Brighton ad esempio) lo si può fare, se va bene, pochi weekend in tutta l'estate. La realtà è che per godersi il mare e la montagna italiani e inglesi vanno fuori dallo UK. Il che vuol dire prendere un treno o un aereo. Che vuol dire programmare il tutto con molto tempo di anticipo. E vuol dire anche che solitamente non è un'esperienza a basso costo. E se ci pensate bene, il tempo atmosferico non lo digeriscono del tutto neanche gli inglesi. Un numero impressionante di persone lasciano baracca e burattini per trasferirsi in Spagna e trascorrervi la pensione.

I rapporti sociali. Mettici il fatto che Londra è una grande metropoli, mettici che gli inglesi sono freddi e raffreddano anche chi gli sta intorno, ma i rapporti sociali qui richiedono una gran fatica. E quando finalmente costruisci una bella amicizia, di solito la perdi perchè l'amico o l'amica in questione decide di trasferirsi altrove. Alcune delle mie amicizie più strette sono tornate in Australia, Francia e Italia. Londra è un gran porto di mare dove pochi ci vivono ma quasi tutti ci passano.
Inoltre, trovo stancante la totale mancanza di interazione con gli sconosciuti, sul treno, nei negozi, per strada. Mai uno scambio di sguardi o di battute che non vadano oltre il banale.

Uscire richiede fatica. Mi spiego. Quasi tutte le attività d'intrattenimento o ricreative iniziano alle 7.30-8pm e finiscono prima delle 11.30pm. Teatro, concerti, perfino gran parte dei pub. Per chi lavora fuori dal centro e non ha un lavoro rigorosamente 9am-5pm, questo vuol dire correre a prendere i mezzi per arrivare in tempo. Paradossalmente ci si stressa per andare a godersi un momento di relax. E usciti da teatro o altro, trovare un posto dove mangiare un boccone diventa un'impresa. Le cucine dei pub chiudono in media alle 9pm, i ristoranti spesso prima delle 10pm a parte qualche caso fortunato. Se gli eventi iniziassero alle 9pm, come in gran parte delle città europee, la vita sarebbe più rilassata o almeno più gestibile.

Ecco la mia lista. Ma c'è ancora un altro prezzo da pagare... Il prezzo forse più pesante è quello di vedere l'Italia da lontano come un mondo bellissimo ma impossibile e dover trovare le parole per rispondere all'ennesimo straniero che ti chiede "Ma sei italiano? E che ci fai qui in Inghilterra?". Per loro è il paradiso. Vai a spiegare loro...

martedì 4 settembre 2012

Se gli italiani emigrano di nuovo...

La valigia non sarà più di cartone, ma avrà le rotelle. Il viaggio in treno di 48 ore sarà sostituito da un volo low cost, magari da aeroporti scomodi e a orari infami. E al posto delle melanzane sott'olio della mamma si avrà diritto a una pizza riscaldata al micro-onde dalla hostess. Lo si potrebbe chiamare «Pane e cioccolata 2.0», un fenomeno che non era mai veramente andato via ma ora riemerge. Gli italiani tornano verso i Paesi di lingua tedesca. Non lo fanno solo quelli che per brevità e autofustigazione chiamiamo «cervelli», come se tutti gli altri non lo avessero. Lo fanno le ragazze e i ragazzi di quella che chiamiamo «generazione 2.0», per non definirla più propriamente «generazione 35%» (di disoccupati).
 
I dati della Bundesagentur für Arbeit, l'agenzia tedesca del lavoro, lasciano pochi dubbi sul fatto che si tratti di un fenomeno strutturalee non di un blip su un andamento per il resto piatto. L'accelerazione, dal 2009 al 2011, è netta. La sostanza è che in questi due anni l'aumento dei lavoratori italiani in Germania, in percentuale, è pari a quello degli lavoratori in arrivo dalla Grecia. Più 6,4% per questi ultimi, più 6,3% per gli italiani. Alle spalle gli ellenici hanno un Paese nel quale la disoccupazione ufficiale è attorno al 23%, mentre in Italia supera appena il 10%. Ma in entrambe le economie solo un cittadino su tre ha effettivamente un posto, segnala Eurostat, dunque l'andamento parallelo nelle migrazioni verso Nord non è poi così strano.
 
Soprattutto, il ritmo dei flussi verso la Germania appare in crescita sempre più rapida sia per gli italiani che per i greci, ma anche per spagnoli e portoghesi. Gli europei del Sud riprendono le strade battute dai loro nonni, per le stesse ragioni. All'inizio della crisi, nell'anno di crollo seguito al crac di Lehman Brothers, era un piccolo rivolo di uscite (più 1,7% di italiani e spagnoli in Germania nel 2010). Nel 2011 è diventato un flusso pronunciato, più 4,47% l'Italia e anche di più Spagna, Grecia o Portogallo. E quest'anno sembra un'esplosione dall'Italia verso la Repubblica federale di persone in cerca di lavoro. La Bundesagentur für Arbeit segnala 189.299 lavoratori italiani in regola con i contributi in Germania nel 2011 (8000 in più sul 2010) e ben 232.800 a maggio di quest'anno, un'impennata addirittura del 22% forse però dovuta in parte a un effetto ottico delle statistiche: possibile che molti lavorassero già nella Repubblica federale, ma sono stati regolarizzati solo negli ultimi mesi. Come che sia, è un'inversione di tendenza. Dai tempi di «Pane e cioccolata» in versione originale e fino a metà dello scorso decennio, era proseguito il graduale declino nella presenza dei lavoratori italiani in Germania. Il 2005 ha segnato il minimo a 171 mila. Poi il malessere economico decennale a Sud delle Alpi e gli choc successivi hanno provocato la ripresa delle abitudini di un tempo.
 
Pressati dal boom dell'export e dal declino demografico, i tedeschi fanno quanto possono per incoraggiare l'arrivo di nuova manodopera. Non è più il tempo della banda di Paese che accoglieva alla stazione i turchi destinati alle fabbriche del miracolo economico. Ma i distretti della meccanica, soprattutto in provincia, hanno sete di nuovi operai da formare. Spiegel scrive che solo nella regione metropolitana del Reno-Neckar, a sud-ovest, si prevede una carenza di manodopera specializzata per 35 mila unità entro il 2013. La Zdh, la confederazione tedesca dei mestieri che rappresenta elettricisti, edili o commercianti, è arrivata a contattare le congregazioni religiose in Spagna perché convincano i giovani parrocchiani a trasferirsi nella provincia profonda tedesca nell'Emsland o a Mannheim.
 
Molti preferiscono Berlino, che forse offrirà meno opportunità di lavoro ma ha locali più interessanti. Eppure questa recessione così feroce, così apparentemente cronica, spinge sempre di più un'intera generazione di italiani, spagnoli, portoghesi e greci al pragmatismo. Le sedi del Goethe Institut sono così subissate di richieste d'iscrizione che - fa sapere la scuola di lingua - «in molte sedi si è dovuta aumentare l'offerta». Come mostra il grafico qui sopra, l'aumento è a doppia cifra in tutta l'Europa del Sud. Italia inclusa. Dice il presidente del Goethe Klaus-Dieter Lehmann: «Sono i giovani che vogliono i nostri corsi, ma non per leggere Schiller in originale: vogliono migliorare le loro possibilità di trovare un lavoro».
 
Il Goethe Institut ha studiato con cura l'antropologia dell'iscritto medio sudeuropeo di nuova generazione. «Italia: principalmente giovani uomini, in maggioranza con una buona istruzione, che vogliono migliorare le loro prospettive di lavoro» (gli spagnoli invece, «fra i 20 e i 40 anni»). Non è uno sforzo inutile. Se qualche anno fa i professori insegnavano il vocabolario della teologia, della filosofia o della poesia romantica, adesso hanno introdotto corsi per il tedesco del settore meccanica e auto: lo hanno fatto per esempio a Torino, dove nell'ultimo anno le iscrizioni al Goethe sono cresciute del 26% (anche perché l'Italdesign di Giogetto Giugiaro è passata alla Volkswagen).
Altrove i corsi del Goethe, da Napoli a Barcellona, si concentrano sulle parole utili per infermieri, medici o laureati in legge. Nel capoluogo campano le iscrizioni sono cresciute più degli investimenti in Cina, e così anche a Milano; solo a Roma, in tutta l'Europa del Sud, sono rimaste praticamente piatte. Ma forse è proprio questo ciò che i tedeschi non potranno mai capire dell'Italia.

venerdì 3 agosto 2012

CITAZIONI

“Dobbiamo credere nella fortuna. Come potremmo, altrimenti, spiegare il successo di chi non ci piace?” Jean Cocteau

“Ci deve essere una spiegazione matematica per la bruttezza della sua cravatta” (Russell Crowe, nei panni del matematico John Nash, nel film “A beautiful mind” di Ron Howard, 2001)

”Non ho niente da dire e lo sto dicendo” John Cage

“I miei genitori sono stati insieme per quarant’anni, ma solo per ripicca”, Woody Allen

“Quando penso alla carne della mia carne, chissà perché, divento subito vegetariano” (Philippe Noiret nel film “Amici miei” di Mario Monicelli, 1975)

Legge di Murphy: “Consultando un numero sufficiente di esperti si può confermare qualsiasi opinione” Arthur Bloch

Legge di Murphy: “Se rimane sulla tua scrivania più di 15 minuti, sei diventato un esperto” Arthur Bloch

Legge di Murphy: “La conclusione è il posto dove ti stufi di pensare” Arthur Bloch

Legge di Murphy: “Più vecchie e noiose sono le riviste in sala d’attesa e più devi aspettare” Arthur Bloch

“L’aspetto più difficile della soluzione dei problemi é il prevedere i problemi creati dalle soluzioni” Theodore Levitt

“Lusingarsi di essere senza pregiudizi è, di per sé, un grande pregiudizio” Anatole France

“Sono libero di avere delle opinioni, e questa è una gran bella cosa, ma vorrei anche essere libero di non averne" Sacha Guitry

“Quando si dice di essere d’accordo su una certa cosa in linea di principio, significa che non si ha la minima intenzione di metterla in pratica” Otto Von Bismarck

«Lei crede all’amore a prima vista?», «Non so, ma certo fa risparmiare un sacco di tempo» (dialogo fra George Raft e Mae West nel film “Nigth after night” di Archie Mayo, 1932)

«Da quando c'è lui... treni in orario, e tutto in ordine!», «Per fare arrivare i treni in orario, però se vogliamo mica c'era bisogno di farlo capo del governo. Bastava farlo capostazione» (Dialogo tra una fascista e Massimo Troisi in "Le vie del Signore sono finite" di Massimo Troisi, 1987)

“La vita é l’arte di trarre conclusioni sufficienti da premesse insufficienti” Samuel Butler

“Abilità politica significa avere la capacità di prevedere cosa accadrà domani, la settimana prossima, il mese prossimo e l’anno prossimo. E, in seguito, avere la capacità di spiegare perché non é accaduto” Winston Churchill

“La pianificazione strategica va in crisi quando il futuro si rifiuta di assumere il ruolo assegnatogli dai pianificatori” Edward de Bono

“I letterati scrivono l’elogio del pennino quando compare la macchina per scrivere e l’elogio della vecchia Olivetti quando compare il Macintosh” Giuseppe Pontiggia

“In Italia la linea più breve fra due punti è un arabesco” Ennio Flaiano

“E' sbagliato giudicare un uomo dalle persone che frequenta. Giuda, per esempio, aveva degli amici irreprensibili” Marcello Marchesi

“Non c’è niente di più difficile per un pittore veramente creativo del dipingere una rosa, perché prima tutto deve dimenticare tutte le altre rose che sono state dipinte" Henri Matisse

“Il bello della democrazia è proprio questo: tutti possono parlare, ma non occorre ascoltare” Enzo Biagi

“L’uomo non ha orecchie per ciò che non rientra nella sua esperienza” Friedrich Nietzsche

“Interpellate cinque economisti e otterrete cinque risposte diverse. Sei, se uno viene da Harvard” Edgar R. Fiedler

"Certi problemi sono talmente complessi che è necessario essere molto intelligenti e molto ben informati anche solo per rimanere indecisi sul da farsi" Laurence J. Peter

In teoria, non c’é differenza fra la teoria e la pratica. Ma in pratica c’é” Yogi Berra

“Il compito di un teorico è di dire delle ovvietà, così almeno si ha la sicurezza che sono già verificate dal consenso comune. Tutt’al più, si tratta di organizzare le ovvietà e di dire alcune ovvietà nei momenti giusti” Umberto Eco

“Ci sono persone che parlano, parlano ...finché non trovano qualcosa da dire” Sacha Guitry

“Se cinquanta milioni di persone dicono una cosa stupida, la cosa non cessa di essere stupida” Anatole France

“Le più affascinanti pagine sulla campagna si scrivono nel bel mezzo di una città” Jules Renard

“Siamo qui sulla terra per ridere. Non potremo ridere al purgatorio o all’inferno. E, in paradiso, non sarebbe educato” Jules Renard

“L'uomo veramente libero è colui che rifiuta un invito a pranzo senza sentire il bisogno di inventare una scusa” Jules Renard

“A forza di fare lo scettico, sono diventato scettico su molte cose, soprattutto sullo scetticismo” Alfred Capus

“Partire è un po’ morire, ma morire è partire del tutto” Alphonse Allais

“L’uomo non è perfetto: non c’è da meravigliarsi se si pensa all’epoca in cui fu creato” Alphonse Allais

“Il caso è lo pseudonimo di Dio quando non vuole firmare” Anatole France

“L’amore è un colpo d’occhio, un colpo di reni e un colpo di spugna” Sarah Bernhardt

“A forza di vivere costantemente con qualcuno... si finisce per dimenticare un po’ la sua silhouette. Fate attenzione al giorno in cui vi fermate un attimo per allacciarvi le scarpe, la vostra compagna vi avrà oltrepassato di qualche metro...Lei è di spalle...cammina lentamente...voi l’osservate...la seguireste se non foste obbligati a raggiungerla?” Sacha Guitry

“Evitate di raccontare a vostra moglie le cattiverie subite dalle precedenti donne. Non è proprio il caso di darle delle idee” Sacha Guitry

“La scuola è quell'esilio in cui l'adulto tiene il bambino fin quando è capace di vivere nel mondo degli adulti senza dar fastidio” Maria Montessori

“Scuole: luoghi dove s’insegna ai ragazzi ciò che è indispensabile sapere per diventare professori” Sacha Guitry

“Per me la vecchiaia significa sempre quindici anni in più della mia età” Bernard Baruch

“Il futuro é già passato e non ce ne siamo nemmeno accorti” (Vittorio Gassman, nel film “C’eravamo tanto amati” di Ettore Scola, 1974)

“Le domande alle quali è più difficile rispondere sono quelle la cui risposta è ovvia” George Bernard Shaw

"Il senso comune altro non è che una serie di equivoci e fraintendimenti assimilati fino all'età di 18 anni" Albert Einstein

“Non sprecate troppo tempo a cercare gli ostacoli: potrebbero non essercene!” Franz Kafka

“Nell’amore di gruppo c’è il vantaggio che uno, se vuole, può dormire” Ennio Flaiano

“Gli italiani amano perdonare. Soprattutto le cose irreparabili che colpiscono gli altri...” Sebastiano Vassalli

“L’italiano ha un tale culto per la furbizia, che arriva persino all’ammirazione di chi se ne serve a suo danno” Giuseppe Prezzolini

“Il cattivo critico critica il poeta, non la poesia” Ezra Pound

“Il difficile, in una discussione, non è difendere la propria opinione, ma conoscerla” André Maurois

“Se un’idea è più moderna di un’altra, è segno che non sono immortali né l’una né l’altra” Carlo Emilio Gadda

“Non sono le idee che mi spaventano, ma le facce che rappresentano certe idee” Leo Longanesi

“«Con gli eunuchi si può parlare a lungo», diceva una donna dell’harem” Stanislaw Jerzy Lec

“Perché mai dobbiamo avere abbastanza memoria da ricordare fin nei minimi particolari quello che ci è capitato e non per ricordare quante volte lo abbiamo raccontato alla stessa persona?” François de La Rochefoucauld

“Di solito, il perdurare di un’abitudine è direttamente proporzionale alla sua assurdità” Marcel Proust

“Quando non si vede bene cosa c’è davanti, viene spontaneo chiedersi cosa c’è dietro” Norberto Bobbio

«Lei crede davvero che avere i soldi automaticamente porti la felicità?», «No, però nemmeno che automaticamente mi deprima» (dialogo fra Cameron Mitchell e Lauren Bacall nel film “Come sposare un milionario” di Jean Negulesco, 1953)

“Il problema è che per capire che non avevo talento di scrittore mi ci sono voluti quindici anni, ma non ho potuto farci nulla perché ormai ero diventato famoso” Robert Benchley

“ Nessuno ricorderebbe il Buon Samaritano se avesse avuto solo buone intenzioni: aveva anche i soldi” Margaret Thatcher

“Nessuna donna si sposa per denaro: sono tutte tanto astute, prima di sposare un milionario, da innamorarsene” Cesare Pavese

“Nulla necessita di cambiamento quanto le abitudini degli altri” Mark Twain

“Quando il direttore di un quotidiano va in ferie, corre il rischio che le vendite del giornale, in sua assenza, diminuiscano. Ma ne corre uno maggiore: che aumentino” Indro Montanelli

“È più facile spezzare un atomo che un pregiudizio” Albert Einstein

“Non far ricamare iniziali sulla biancheria, infastidiresti gli eredi” Mino Maccari

giovedì 12 luglio 2012

Avete fatto sognare un Paese intero. Grazie lo stesso!

Una finale persa per 4-0 ti lascia sempre segni pesanti e dolorosi sulla pelle. E’ persino inutile parlare della partita con la Spagna. Nel senso che la partita non c’è stata. Solo la Spagna e basta. Niente Italia. Detto questo, non si può giudicare solo e soltanto quest’ultima partita. Perché sarebbe una realtà assolutamente falsata. Non è stata l’Italia che abbiamo visto prima, contro l’Inghilterra e contro la Germania, era semplicemente un’altra nazionale. Se volete dire che forse bisognerebbe almeno limare un po’ i giudizi entusiastici dopo la vittoria ai rigori con gli inglesi, e la doppietta di Balotelli contro la Germania, rispondo che ci sta, che è vero, che è giusto. Che forse quelle partite ci hanno offerto una realtà un po’ distorta, un po’ esagerata, un po’ troppo ottimista. Il calcio può farti sobbalzare un po’ il cuore, soprenderti, è bello proprio per questo. Nel bene e nel male. Ma nemmeno posso pensare che tra l’Italia e la Spagna ci sia tale e tanta differenza, sempre e in assoluto. Posso accettarlo per una serata maledetta, ma non credo che l’Italia si meriti tanta umiliazione. E anzi secondo me di umiliazione proprio non si può parlare, nonostante il risultato. E comunque approfittiamo per inchinarci – come del resto abbiamo fatto fin troppo… – davanti alla nazionale di Del Bosque che stasera ha confermato di giocare il migliore calcio al mondo. Una squadra perfetta, dalla difesa all’attacco. Un esempio per tutti, anche per noi che abbiamo cercato di trarne lezione. E stasera più che mai…
Il voto alla partita dell’Italia non lo dò, sarebbe basso, bassissimo e non sarebbe giusto. Insisto a dare all’Italia un 7,5 per il bel campionato europeo che ha fatto. Insisto a ringraziarla per la dimostrazione di grande unità,  di forza, di applicazione, di volontà, di dedizione al lavoro. Un merito che va ascritto per la maggior parte al lavoro eccezionale di Prandelli, che spero rimanga alla guida della nazionale, superi tutte le incertezze e contribuisca alla crescita del calcio azzurro. Non è una nazionale che ha fallito questa, nessuno si sarebbe mai aspettato di arrivare fino alla finale dell’Europeo. E’ una nazionale questa che ricorderemo a lungo e che speriamo sia solo all’inizio del suo cammino. Appuntamento ai Mondiali del 2014.

venerdì 29 giugno 2012

Sogno o son desto? La partita più grande da Germania 2006

Quella che resta negli occhi alla fine è una partita che è molto difficile credere sia stata vera, e non abbia fatto parte invece di un sogno. Abbiamo battuto la Germania 2-0 con due gol di Balotelli che può diventare il miglior giocatore dell’Europeo e ci stiamo preparando per andare a Kiev ad affrontare la Spagna in finale: sogniamo o siamo desti? E’ la stessa Italia che due anni fa Prandelli ha raccolto dalle macerie di Sudafrica 2010? Un match risolto addirittura nel primo tempo, con pochissima storia, se non qualche brivido iniziale. Nessuno avrebbe potuto immaginarlo. A testimonianza che il calcio ha pur sempre del misterioso, celestiale, incontrollabile. L’Italia non ha vinto per un miracolo, è questo il punto. Ha vinto perché se lo è fortemente meritato. Giocando la miglior partita che le sia capitata da quando è diventata campione del Mondo a Berlino il 9 luglio 2006. Cancellando, si spera, tutto quello che di negativo c’è stato in mezzo. Forse non sarà una partite che porta l’Italia fuori dalla sua crisi – parliamo sempre di calcio, intendiamoci… – ma abbiamo sicuramente una grande squadra e dei grandi giocatori. I giocatori non riesci mai a misurarli e valutarli perfettamente fino a quando non ti trovi coinvolto in serate del genere, serate che danno la reale dimensione del gruppo, delle sue capacità tecniche, fisiche e soprattutto psicologiche. E’ contro i grandi avversari che devi misurare la tua grandezza: e l’Italia è già passata attraverso Spagna, Inghilterra e Germania. Non può essere una coincidenza, non siamo in finale per fortuna. Ci siamo perché l’Italia è semplicemente forte, tecnicamente dotata e preparata. Un campionato non dei più eccelsi (forse) e un calcio italiano preso a schiaffi in Europa a livello di club, questa nazionale ha partorito. Questo sì è stato un piccolo miracolo di Prandelli, nessuno poteva pensare a questo.

E adesso ci ritocca la Spagna, in una partita che non avrà nulla a che fare con quella d’esordio in questo Europeo in Polonia e Ucraina. Sono convinto che un po’ si sia vinto anche perché la Germania non è praticamente esistita ed è stata mandata ko dalla doppietta di Balotelli, ma soprattutto perché la preparazione della partita degli azzurri è stata praticamente perfetta. Niente affatto stanchi pur avendo avuto due giorni di riposo in meno, concentratissimi e determinati, chiusi in difesa e determinati in attacco. E’ sulle qualità tecniche messe in mostra dai giocatori, sulla capacità dell’attacco di far male al momento giusto, sulla capacità del centrocampo con Pirlo e De Rossi di tenere unita e compatta la squadra, sulla difesa che ha completamente disinnescato gli attaccanti tedeschi che si misura la grandezza dell’Italia. Il “possesso palla” tanto citato nei giorni scorsi è stato di leggero predomionio della Germania (54%), ma è stata la qualità immensamente più elevata di quel 46% degli azzurri a vincere. Un numero di per sé non significa niente, contano gli uomini che quel numero determinano.

Prandelli ha azzeccato tutto. Senza andare troppo indietro, e cioè ai due anni di gestione precedente tra il 2010 e oggi: è chiaro che ha azzeccato ad esempio la scelta di un attacco che finora magari poteva aver giocato bene, ma che ancora non era riuscito a sfondare. Troppi pochi gol si diceva: un Cassano abbastanza spompato e un Balotelli ancora perso in se stesso. I migliori in campo sono stati proprio loro, sono stati loro i cazzotti che hanno spedito ko la Germania. Prandelli ha creduto in loro, li ha difesi e soprattutto caricati.

La Germania ci soffre storicamente. Più ci accolgono al ritmo di cori con pizza e mandolini, più loro si presentano in campo da grandi favoriti, e più ci soffrono. E perdono. Dal 1970 a oggi. Girando per Varsavia i tifosi tedeschi erano convinti che questa sarebbe stata la serata giusta, la grande notte del riscatto, “La Pizza è arrivata al capolinea”, ed è stata un’altra grande notte per l’Italia e un’altra serata francamente umiliamente (sempre calcisticamente parlando per carità) per loro.

E’ stata la notte ovviamente di Mario Balotelli. Ha segnato gol bellissimi, soprattutto il secondo. Quando riesce a giocare con la testa libera da pressioni e a sbrigliare l’istinto è insuperabile. Gli è stata messa addosso una pressione enorme, inizialmente era un peso che non sopportava., Adesso sembra essersene liberato. In ogni caso non ci basta ancora: ci serve un’altra grande partita e altri gol così.

martedì 26 giugno 2012

IL BATTICUORE DI KIEV

La vittoria, quando arriva così, mette a dura prova le coronarie. Del resto lo aveva detto anche Buffon (”I rigori? Mi auguro di no”), che poi ha fatto la parata decisiva su Johnson regalandoci praticamente la semifinale. Il momento più duro, ai rigori, è stato l’errore di Montolivo e quello più esaltante il “cucchiaio” (o come dicono i calciatori lo “scavetto”) di Pirlo. Indimenticabile poi il momento in cui Diamanti mette dentro l’ultimo penalty: è il giocatore rivelazione della nazionale, ha estro, qualità, coraggio. Non sarebbe stato giusto che l’Italia finisse fuori ai rigori, ma poteva capitare. E il giudizio non sarebbe dovuto cambiare. Ma invece i risultati nel calcio cambiano tutto, si sa. E dunque adesso la nazionale si sente in rampa di lancio, pronta a fare tutto, addirittura galvanizzata dall’idea di giocarsela fino in fondo. Sì fino alla finale, domenica prossima, proprio in questo stadio, proprio a Kiev: contiamo di tornarci.
Ogni tanto l’andamento della partita e la sequenza dei rigori coincidono, concordano. Non diventano una beffa, la beffa dei rigori, la lotteria dei rigori. Dai rigori l’Italia ha ottenuto quello che era giusto che ottenesse. Potremmo metterci qui a fare il conteggio di quante volte i rigori ci hanno dato e di quante ci hanno tolto ( ci abbiamo vinto un Mondiale e perso un altro…) ma adesso già non conta più, il clima di festa circonda la squadra che in questo momento si sente forte, fortissima, insuperabile. E comunque con i rigori in un grande torneo internazionale ci devi fare i conti, sono come una spada di Damocle che ti pende sulla testa.
Dopo aver battuto l’Inghilterra – un avversario forse tecnicamente inferiore agli azzurri in questo momento, ma comunque un grande avversario – l’Italia si appresta ad affrontare la Germania di Gomez, Ozil & C. Un punto di riferimento del calcio mondiale. Prima ancora di ripensare alla partita che abbiamo superato, viene da pensare in cosa si stia trasformando questo Europeo. Avevo detto che questa era la partita della svolta, che in qualche maniera poteva segnare il futuro della nazionale. L’Europeo, nei programmi, doveva essere un torneo di passaggio. E invece sta diventando qualcosa di più, di molto di più. Non dico che tutto quello che da stasera in poi viene è tutto di guadagnato, perché non sarebbe la mentalità giusta, con cui affrontare l’avversario più difficile, però l’Italia almeno diciamo che l’Italia sta diventando la sorpresa dell’Europeo. O la rivelazione se ci piace.
L’Italia ha dovuto affrontare prove difficili per arrivare fino alla semifinale di giovedì a Varsavia. Ci siamo battuti contro la Spagna e non abbiamo certo demeritato, ci siamo misurati contro l’Inghilterra, che abbiamo battuto solo ai rigori, ma che nei novanta minuti è stata anche sommersa di occasioni da gol. La partita l’ha fatta l’Italia. Insomma nessuno ci ha regalato niente anzi. Non solo, il calcio dell’Italia non è stato speculativo e rinunciatario come quello degli inglesi che sono arrivati davanti a Buffon molto più raramente. Balotelli ha avuto molte più palle gol di Rooney che ha ben altra statura internazionale. L’attaccante del City ha iniziato con qualche difficoltà, sembra iniziare le partite ragionando troppo e con una leggera paura, cerca il tiro solo in posizione perfetta. Ma quando rompe il fiato e libera l’istinto il peso in attacco si sente eccome. Per me ha fatto una grande partita. E’ un peccato che sia fermo ad un solo gol in questo Europeo. Ne merita di più e la Germania è l’occasione giusta per trovare la definitiva consacrazione internazionale.
Certo non tutto è stato perfetto. Cassano sinceramente sembra aver esaurito la riserva di fiato e concentrazione, l’infortunio di De Rossi – il migliore in campo nei novanta minuti – ha aperto un altro problema (dopo quello di Chiellini) nella gestione stessa della partita. Prandelli è stato costretto a chiudere la gara bcon l’Inghilterra con una punta sola. Penso però che proprio in queste difficoltà, nell’esigenza di improvvisarsi il futuro in minuti di partita così concitati e complessi, nasca una bella squadra. Ho ancora pudore a dire grande, ma è come se lo avessi detto.

martedì 19 giugno 2012

CE LA POSSIAMO GIOCARE CON TUTTI

E' finita come era giusto e logico che si chiudesse il girone, con la Spagna al primo posto e l'Italia ai quarti. E' finita con la lezione di sportività dei Campioni del Mondo, alla faccia di quelli che credevano davvero al biscotto, forse perché contagiati dalla cultura dei sospetti e delle irregolarità. Ce l'ha fatta invece l'Italia, grazie a se stessa e a una partita che ha rilanciato gli azzurri al modulo più logico, con De Rossi a centrocampo, perché quella è la sua natura e pensare di dover sprecare le sue qualità in un ruolo non congeniale è davvero troppo. Bravo Prandelli, nella partita decisiva, a restituire ai tifosi la squadra che tanto bene aveva fatto nelle qualificazioni, con Pirlo capace di dettare i tempi con gente capace di strappare e sfruttare i suoi tocchi. Ora può davvero cominciare l'Europeo dell'Italia, che offre l'impressione di essere in crescita e non deve più commettere l'errore di lasciare in equilibrio partite assolutamente alla portata. L'Italia l'ha chiusa con l'Irlanda, così come doveva fare con la Croazia e non c'era bisogno di tutta questa sofferenza finale.

Ma la fotografia della partita è molto, se non tutta, nei gol di Cassano e Balotelli, gli attaccanti designati al debutto e che hanno visto le loro strade divise proprio nei novanta minuti decisivi. E' stato sostituito Cassano, che aveva firmato il gol capace di aprire la partita; poi ci ha pensato Balotelli, subentrato a Di Natale e capace di chiudere una gara comunque complicata con una
prodezza. Sono stati due gol su calci d'angolo, ma forse per la prima volta l'Italia ha regalato alle punte l'assistenza che meritavano. E anche per questo Prandelli merita il massimo apprezzamento, per aver tenuto sulla corda tutti i suoi attaccanti, senza perdere nessuno per strada. Ora l'Italia sa di potersela giocare con le altre sette migliori d'Europa e soprattutto sa di avere un'infinità di frecce al proprio arco. Abate e Balzaretti sono stati bravi a sostituire Maggio e Giaccherini e soprattutto Prandelli, come detto, è stato ancora più bravo a capire il momento giusto per rilanciare l'Italia. L'Italia delle qualificazioni, con tanto cuore e con De Rossi gigante a centrocampo.

mercoledì 2 novembre 2011

Giocare giocare al blackjack nei casino online

Se avete sempre sentito parlare del gioco del blackjack ma non vi siete mai addentrati più di tanto nell’argomento, ecco a voi qualche informazione utile riguardo alle regole del gioco stesso e come poter provare il piacere di giocare online e per soldi veri. Infatti, numerosi sono i casino on line che presentano, tra i loro giochi, quello del blackjack. Uno di questi è il titanbet. In questo casino online, potrete trovare tutti i giochi tipici delle sale da gioco, come ad esempio la roulette, le slot machine, giochi da tavolo, dadi e infine, anche il blackjack. Questo gioco, può ricordare per certi versi il nostro beneamato sette e mezzo. Infatti, seppur giocandosi con le carte francesi, alcune dinamiche ricordano il gioco italiano. Le carte da 2 a 10, valgono la cifra del loro valore nominale: quindi il 2 vale due, il 3 tre, il 10 dieci ecc. Le figure, quindi il Jack, la Donna e il Re, valgono dieci mentre l’asso, può valere uno o undici, a seconda delle esigenze. L’obiettivo, è battere il banco effettuando un punteggio pari o il più vicino possibile a 21. L’obiettivo, consiste nel battere il banco, senza confrontarsi con altri giocatori. Nei casino online, come ad esempio nello spin palace, giocare al blackjack vi farà godere di tutta la calma necessaria per effettuare le vostre decisioni. Inoltre, se avete ancora poca pratica alle spalle, potrete praticare direttamente sulla piattaforma di gioco, scegliendo l’opzione per soldi virtuali. Se visiterete il sito ufficiale dello spin palace, troverete informazioni riguardanti tutti i giochi, regole del gioco comprese. Anche se in Italia e nelle abitudini il blackjack non è mai divenuto popolare, lo stesso non si può dire per i casino online e per i casino reali. Il blackjack, infatti, costituisce uno dei giochi più amati dagli amanti del gioco d’azzardo di tutto il mondo.

mercoledì 1 giugno 2011

Il Cav ha scoperto la vincibilità. E dunque? Che alternativa c'è?


Certamente il Cav ha perso, e di brutto. Lo ha ammesso anche lui, con franchezza e senza trovare una maschera per nascondere l’insoddisfazione. Ha perso, embé? E dunque? Voglio dire: anche il più cocciuto degli antiberlusconiani deve ammettere che finora abbiamo assistito solo alla pars distruens di un processo politico. Tutte le energie dell’Italia anti-Cav si sono concentrate sulla liquidazione dell’ondata maggioritaria, sulla denuncia delle promesse mancate, e hanno tratto gran vantaggio dalla scelta di sradicare le sfide comunali dall’ordinaria amministrazione per spingerle sulla verifica plebiscitaria del tocco carismatico del capo del governo. Il quartier generale è stato bombardato con discreto successo, sono state espugnate importanti roccaforti ivi compreso il campobase del berlusconismo, Milano. Il Pdl è un sobbollire sentimenti che alternano paura, indisposizione, risentimento, opacità organizzativa. La Lega con le parole punta i piedi nell’immediato presente governativo e con la testa immagina ipotesi di un futuro di padana autonomia. Il Cav, fa pure noia ripeterlo, ha sbagliato la campagna elettorale, forse pure mal consigliato da mal consiglieri. Ha cavalcato quello che gli strateghi americani chiamano negative campaigning, il registro della paura, le metafore della cittadella assediata, la mobilitazione del risentimento, codici retorici che si sposano male con la storia del berlusconismo, al limite tacciabile di un ottimismo a prescindere e, in svariati casi, fuori luogo. E soprattutto, dentro e fuori il perimetro della politica di partito, sono emersi nella loro nitidezza dei nodi problematici che le alchimie parlamentari, le scomposizioni e ricomposizioni della maggioranza, avevano tenuto nascosti e messi al sicuro dentro le mura della sovranità popolare da non calpestare e della volontà degli elettori da non tradire. La storia di queste elezioni racconta che un sacco di elettori sono rimasti e casa, e qualcun altro ha scelto magari di esprimere un voto inautentico, una cartolina di avviso spedita per segnalare un disagio. Adesso è pure troppo semplice, per chi avvertiva nel centrodestra la necessità di una rigenerazione, dire: l’avevamo detto, se la crisi estiva del PdL fosse stata gestita diversamente a quest’ora non si osserverebbe l’alta marea arancione che urla di voler “liberare” l’Italia. Ma fino a questo punto, siamo ancora nel perimetro destruens del vecchio ordine che scricchiola. Anche volendo dare per buona l’ipotesi di un declino certo del berlusconismo dopo diciassette anni di egemonia fragile e guerreggiata, non esiste al momento una qualche ipotesi davvero percorribile per uscire dalla crisi. Il Cav ha il cavallo zoppo, e dunque? Nelle piazze festanti del centrosinistra si respira l’aria del ritorno alla “gioiosa macchina da guerra”, e il conseguente rischio di scivolare sulla buccia di banana di un trionfalismo che ha già stampato il segno della vittoria sul prossimo calendario elettorale: chi fa più rumore di vittoria non è il Pd ma i dipietristi e Vendola, e questo qualcosa significa. Il Terzo polo è in una fase di assestamento della propria identità politica e organizzativa di centrodestra “alternativo” che non può limitarsi all’obiettivo di sgangherare la megamacchina berlusconiana. La maggioranza di governo, sia il PdL in apnea sia la Lega in tachicardia, sono evidentemente impreparati a gestire un futuro postberlusconiano, anche se questa ipotesi – prima considerata un certificato di tradimento – comincia a farsi strada senza per forza dover scomodare catastrofi e apocalissi. Il crollo c’è stato. Le macerie ostruiscono la visuale. Il Cav ha scoperto la vincibilità. E dunque?

lunedì 30 maggio 2011

Barcellona padrone d’Europa


LONDRA – Non c’è stata partita. Altro che equilibrio: il Barcellona ha dominato! Come in un allenamento, il Manchester United ha fatto da sparring partner.

Il Barcellona ha vinto il terzo titolo europeo in sei anni, confermandosi squadra irresistibile: potrebbe ripetere l’exploit di due anni fa, quando spazzolò tutto quello che c’era da vincere in campo nazionale e internazionale.
Il possesso palla dei catalani si è affermato ancora una volta: un modo di giocare difficile da contrastare per tutti gli avversari, specie per il Manchester, apparso subito “cotto”.
Tutti i blaugrana, dal fenomeno Messi ai più defilati ma geniali Iniesta e Xavi, a Villa e Pedro, hanno dimostrato ancora di essere i più forti.
Guardiola (a 40 anni il più giovane tecnico vincitore di due titoli europei) ha piazzato anche stavolta la sorpresa, schierando Abidal (meno di due mesi dal rientro in campo dopo aver battuto il cancro al fegato) terzino sinistro, mandando Puyol in tribuna e confermando Mascherano al centro della difesa.
Ferguson ha preferito giocare con due attaccanti, Rooney e Hernandez, schierando Giggs nella linea mediana. In porta Van der Saar, che si è ritirato senza l’ultima vittoria della sua prestigiosa carriera ma ha salvato l’United da una goleada.
Dopo dieci minuti di tentativi del Manchester di aggredire (senza conclusioni) l’avversario, il Barcellona ha cominciato a menare il torrone col suo possesso palla con i soliti Inesta-Xavi e Messi a comandare con rapide aperture su Alves (a destra) o Pedro (a sinistra). Gli inglesi hanno barcollato e i blaugrana hanno iniziato a cercare il tiro: 16′ Pedro (fuori), 20′ Villa (a lato), 21′ Villa (debole, parato).
Al 27′ il vantaggio dei catalani, conseguenza quasi inevitabile della loro superiorità: Xavi ha dato a Pedro sulla destra, controllo e interno destro sul primo palo.
La squadra di Guardiola si è addormentata per qualche minuto, dando la possibilità all’United di pareggiare con un’azione che si è svuluppata sulla destra da dove la palla è finita a Rooney, posizionato centralmente: uno-due con Giggs (in offside?) che gliel’ha restituita all’indietro, piattone destro che si è insaccato alla destra di Valdes.
Il Barcellona ha ripreso a giocare e a cercare il gol con Xavi e Iniesta. Due volte Pedro e Messi non sono arrivati a insaccare su traversone basso da destra. In due parole: primo tempo su ritmi alti, Barcellona più appariscente, United un’azione e un gol.
I blaugrana hanno cominciato con aggressività la ripresa. Iniesta al 7′ ha servito Alves sulla destra in area e Van der Saar ha salvato in uscita: una grande occasione.
Poi il gol di Messi, sempre ispirato da Iniesta: il sinistro del fuoriclasse argentino è risultato imprendibile per il portiere olandese. In fondo è stato un gol prevedibile e meritato.
Van der Saar al 19′ ha salvato di piedi a terra su sinistro di Messi. Ma la difesa inglese (Vidic, lo stesso Ferdinand) è apparsa in grande difficoltà contro l’attacco blaugrana: Valdes ha tentato il gol di tacco al 20′. Un destro di Xavi, poco dopo, ha fatto volare il portiere dell’United sulla destra. Iniesta ha sparato da fuori centrale: la squadra di Ferguson ha dato l’impressione di essere in balia dell’avversario.
Per l’infortunio di Fabio è entrato Nani. E il Barca al 25′ ha messo definitivamente le mani sulla Champions: Busquets a Villa che da fuori l’ha messa di destro a effetto nell’angolo alto alla sinistra di Ven der Saar.
Il Manchester ha cercato di riaprire la partita con Rooney e Nani, reclamando un rigore per un mani di Villa (nel primo tempo aveva toccato anche Evra col braccio). Gli inglesi hanno incassato signorilmente il ko: troppo forte il Barcellona, giusto così.

venerdì 31 dicembre 2010

BASTA RUBARE FUTURO AI GIOVANI

Da troppo tempo, ormai, nel passaggio da un anno all'altro siamo costretti a fare professione di “pessimismo della ragione” e “ottimismo della volontà”. Accade anche oggi. Ci lasciamo alle spalle il primo decennio del Terzo millennio, che qualche recente statistica ha avuto l'ardire e l'ardore di giudicare i “migliori anni della storia dell'umanità” per le conquiste tecnologiche, scientifiche e mediche. Un giudizio affrettato e, per molti aspetti, fuorviante. Le statistiche possono anche esaltare “le sorti Magnifiche e progressive” delle nuove tecnologie, ma la percezione che ognuno di noi avverte dentro è che il mondo è messo peggio rispetto a dieci anni fa. E così il nostro Paese. Sarebbe lungo l'elenco delle cose materiali che mancano o che non sono state realizzate in questi dieci anni. Ma l'indice più verosimile del peggioramento è dato da una percezione diffusa, da una sensazione collettiva che potremmo definire immateriale, e tuttavia più indicativa della ricchezza o della povertà materiali.

La differenza sta nel fatto che dieci anni fa avevamo tutti - individui e popoli, nazioni e continenti - meno paura del futuro. Entravamo nel nuovo Millennio con il coraggio e la voglia di affrontare nuove sfide, mentre oggi guardiamo a ciò che ci aspetta con sempre meno fiducia e molta più angoscia, nonostante le grandi conquiste tecnologiche, scientifiche e mediche. Non è solo questione di Pil o di tassi di disoccupazione, di debiti pubblici o di crac bancari, di contabilizzazione dei profitti e delle perdite. I tecnicismi delle politiche economiche nazionali e dei consessi internazionali possono tamponare le falle, ridurre i danni, evitare momentaneamente i crac, ma è ormai del tutto evidente che la crisi da smarrimento richieda altre terapie e altre risposte, soluzioni diverse e più strutturali rispetto alle crisi cicliche.

Se non ripenseremo a come possiamo e dobbiamo vivere su questo pianeta; se non riusciremo a riequilibrare anche con misure drastiche il rapporto tra risorse (non inesauribili) e consumi; se non saremo capaci di rallentare, fino a invertire, la folle corsa verso una crescita infinita e illimitata; insomma, se non cambieremo modello di sviluppo, stili di vita, valori e modelli culturali oggi egemoni, la paura verso il futuro aumenterà. E non ci sarà politica economica che tenga.

Sembrava che la grande crisi globale degli ultimi anni avesse aperto gli occhi non solo a governanti ed economisti, ma anche all'uomo comune per un ripensamento profondo del modo di vivere e del modo di stare sul pianeta, ripristinando un corretto rapporto tra leggi dell'economia e leggi della natura. Un ripensamento reso sempre più necessario anche per risarcire le future generazioni, per lasciare loro un mondo dove costruirsi una vita, come hanno fatto le generazioni precedenti con noi. Ma quell'iniziale intuizione si è andata perdendo per strada. Continuiamo a rubare, giorno dopo giorno e anno dopo anno, dosi massicce di futuro ai nostri eredi; abbiamo pesantemente ipotecato le loro propettive e abbassato, fino ad annullare, i loro orizzonti scegliendo di vivere al di sopra delle
nostre possibilità e al di sopra delle possibilità consentite dall'ambiente.

Anche oggi, nei (vani) tentativi di superare con le “tecnicalità” la grande crisi economica, continuiamo a mostrare - come generazioni adulte - il lato più egoistico ed egocentrico, a tutto svantaggio di chi ci succederà. E senza pudore, mostriamo pure di indignarci quando i nostri eredi, che hanno definitivamente capito che cosa riserverà loro il futuro, ci presentano il conto - a Londra come a Roma, a Parigi come ad Atene - con tutta la rabbia che hanno accumulato.

In questo scenario globale non proprio esaltante, l'Italia è sempre più risucchiata nella spirale del declino, in parte intrecciata a quella che stringe l'intero Occidente, in parte alimentata dai suoi ritardi storici e dal deficit di governo che da sempre la contraddistingue. Per troppo tempo siamo rimasti impantanati nella frattura berlusconismo- antiberlusconismo senza che nessuna seria e vera riforma - al di là della propaganda - abbia spinto il Paese a modernizzarsi. Il bilancio fallimentare dei governi di centrodestra e dei governi di centrosinistra spingerebbe in paesi normali a cambiare in fretta e con decisione pagina, a riformare (non necessariamente ad abbandonare) un bipolarismo che ha mancato finora la sua missione.

Prevalgono, invece, i tatticismi, i trasformismi, i politicismi anche tra quanti hanno professato in questi anni - producendo, invero, molti guasti e provocando molti guai alla democrazia italiana – l'antipolitica.
Nell'ultimo anno, come nei precedenti, tra scandali a palazzo, rotture fratricide nell'ex maggioranza, voti di fiducia al fotofinish e vergognoso mercato dei parlamentari, di tutto si è parlato tranne che dei problemi veri del Paese. E tutto lascia prevedere che nei prossimi mesi lo scenario non cambierà. L'unica forza politica che continua a incassare i più sostanziosi dividendi del governo è la Lega, non a caso il solo partito a non temere, anzi a invocare le elezioni anticipate per rafforzarsi ulteriormente. Quest'anno si è portata a casa, a tutto danno del Mezzogiorno, le quote latte, la grandissima parte dei fondi del Cipe per opere e infrastrutture nelle regioni e nelle città del Nord, il passaggio ad un federalismo fiscale più punitivo che solidale, colpo mortale per gran parte dei Comuni del Sud.

Difficile, dunque, essere ottimisti con la ragione. Si può e si deve esserlo, però, con la volontà, senza rassegnarsi al fato ma inseguendo in modo ostinato ciò di cui ha più bisogno in questo momento il nostro Paese. Prima di tutto, due grandi patti nazionali: un patto Nord-Sud che porti alla riunificazione vera dell'Italia e un patto generazionale, tra adulti e giovani, che garantisca un futuro a chi verrà dopo di noi. Patti che costano sacrifici e rinunce per tutti, soprattutto per chi ha già avuto e ha ipotecato il futuro delle giovani generazioni, in particolare quelle meridionali. Non sarà facile stabilire da dove cominciare, sappiamo però come cominciare. Ci ha aiutato nei giorni scorsi il presidente della Repubblica, ancora una volta lungimirante nell'indicare la strada. Ha convocato al Quirinale una delegazione di studenti e ricercatori in lotta per ascoltare le loro ragioni, lanciando così un preciso messaggio al Paese: il futuro va deciso assieme a loro, non contro di loro. Va deciso insieme ovunque, in famiglia come nelle grandi scelte politiche. E con l'ottimismo della volontà. Auguri.

mercoledì 24 novembre 2010

Il fango non c'entra, è la macchina dell'odio che ci invita allo scannatoio

Il fango non c’entra. Il fango, se c’è, lo puoi togliere di dosso, è un elemento che ti si appiccica addosso ma non penetra a fondo. Insudicia ma non ferisce. Colpisce ma non morde, perché col tempo il fango, se è fango, si indurisce e cade da solo. E invece c’è un’altra macchina che si è messa in moto in questa stagione sciagurata e tellurica della politica italiana. È la macchina dell’odio. Messa in moto in un clima che ha fatto schizzare la violenza verbale a temperature insostenibili. Alimentata nell’altoforno di uno scontro ideologico orbo di ideologia. Valorizzata da centrali del linguaggio che, consapevolmente, promuovono l’equiparazione simbolica tra l’arena politica e l’osteria, e nell’osteria la barriera tra addetti ai lavori e pubblico si frantuma, al bar dello sport godiamo tutti a crocifiggere l’allenatore. Rilanciata da Internet e in particolare dai social network, discariche senza rete e senza diaframma della prossimità, dove chiunque si sente titolato a esercitare la più disinibita arte dell’insulto: le parole, veicolo del lògos, si trasformano in proiettili di cartucciere distribuite senza licenza. Una macchina stimolata dalla riduzione del conflitto politico a una lotta personalistica che semplifica la comprensione delle scelte politiche gettando in prima linea i corpi, gli attributi individuali, la vita privata, i nomi propri al posto dei cognomi. Una macchina che sostituisce le complicate alchimie ideali e parlamentari, che richiedono il tempo e misura per essere comprese, con la legge del beduino, quella per cui il nemico dell’amico è mio nemico, e il nemico del mio nemico è mio nemico. La lotta tra partiti diventa una tenzone tribale che la macchina dell’odio si occupa di dirigere con il suo arsenale di concetti ipersemplificato. La brutalizzazione dello scontro amico/nemico si fa linfa di senso, l’avversario diventa il barbaro con cui nulla si condivide, né il linguaggio, né le regole, né lo stile, sul ring tutto è permesso – l’insulto, la diffamazione, la degradazione personale, i sigilli di infamia - perché sono saltati tutti i punti di riferimento. La macchina dell’odio sfrutta i meccanismi della "dissonanza cognitiva": tutto ciò che serve a screditare il nemico viene elevato a paradigma e proposto come chiave di interpretazione quotidiana degli eventi, tutto ciò che falsifica il paradigma viene nascosto o presentato come prodotto biforcuto del linguaggio del nemico, che è sempre un linguaggio falso.

Il terremoto politico degli ultimi mesi ha insinuato i meccanismi della macchina dell’odio nella piega di antiche amicizie, di sodalizi consolidati, di tensioni ideali improvvisamente scopertisi poco più che case di cartapesta, buttate giù dal soffio di un aggettivo malefico, una scelta non condivisa, una diversa valutazione sullo stato di salute della maggioranza di governo o dell’Italia. L’amico di un tempo diventa all’improvviso servo, servo sciocco, cameriere, nemico per la pelle, vittima da scannare e il suo scalpo il trofeo da gettare sul tavolo al centro dell’osteria. In questo scenario sboccia in forma quasi naturale, ovvia conseguenza di questa catastrofe linguistica, la pianta velenosa di termini pericolosissimi: tradimento e guerra civile. L’amico diventa traditore, addirittura «traditore della patria», bandito dai tratti deformati. A destra, tradimento e guerra civile sono termini pericolosissimi. Evocano rimossi mai troppo rimossi, il vocabolario di ferite antiche e simboli mortiferi, l’odore sanguinolento dello scannatoio. La macchina dell’odio questo lo sa e sobilla questa mobilitazione del risentimento, strappa idee e corpi alla normale dialettica politica e li ripresenta nella forma ultimativa dello scontro con il nemico oggettivo. Prima regola: il nemico oggettivo va eliminato, e il suo ricordo cancellato dall’album di famiglia. La macchina dell’odio è un agente inquinante che uccide la politica con la scusa di esaltare le passioni.

mercoledì 17 novembre 2010

Diffidate degli zeloti antiberlusconiani, l’Italia è ancora pazza del Cav

Quando si cominciano a ritirar fuori, per parlare della nostra condizione politica presente, date cruciali tipo il 25 aprile, il 25 luglio o l’8 settembre, mischiando il grano della tragedia con il loglio di schermaglie dove per fortuna i morti e i feriti sono simulazioni giornalistiche, succede che arriva la confusione. E ogni volta che si parla del destino del Cav, dal governo Dini a oggi, dal 1996 al 2010, questa tentazione scatta puntuale. Di qua l’Italia da liberare, di là la libertà da difendere, di qua le ragioni della politica normale, di là le rivendicazioni della sovranità popolare, golpe telecratico di qua, golpe tecnocratico di là. Da quindici anni si bisticcia, e si prospettano (ricordate il 2006?) mattanze simboliche, eppure le bocce sono ancora ferme al bipolarismo per come l’abbiamo finora conosciuto. Cav o anti-Cav, siamo sempre qui, a girare attorno a una boa consumata. E quindi, per non correre il rischio che il pubblico dibattito si riduca a un conflitto tra opposte allucinazioni, ovvero tra visioni a ideologia facile e biodegradabile sconnesse dalla realtà, il primo rischio da scansare è la faciloneria: se è incauto dire, insomma, che in Italia tutto va bene perché tutto deve andare bene, è altrettanto incauto fare falò di sedici anni di seconda Repubblica e gettarla nel cestino delle intenzioni andate a male. Eppure, questo è il rischio in cui può incorrere quell’eccesso di zelo antiberlusconiano, assertivo, a tratti goliardico e quasi controfattuale, che, un poco ovunque, pare aver acceso micce e focolai di attivismo, ravvivando tra l’altro sentimenti opposti e speculari, e altrettanto insostenibili secondo ragione. Ci sono alcuni punti, importanti e dirimenti, che non possono essere sottovalutati alla prova di un’analisi serena. In primo luogo, si fa ancora l’errore di considerare il berlusconismo un fatto politico o solo politico, una variante del leaderismo dunque risolvibile e solubile nel liquido di opzioni governative o parlamentari, quando invece il berlusconismo è un fenomeno sociale televisivo, calcistico, imprenditoriale, simbolico, radicato nell’immaginario italiano a partire dagli anni Ottanta. È il racconto ottimistico dell’Italia che ce la può fare dentro e fuori il perimetro del rispetto delle regole, della narrazione rassicurante, dell’individualismo che però mai sfida i luoghi comuni degli italiani brava gente, della sconnessione tra retorica dei valori e comportamenti quotidiani, dell’amore per le vecchie zie longanesiane. La sua componente politica è solo una faccia e, forse, non quella principale. Il Cav interpreta e trasfigura una tipologia di italiano, una variante diffusa di arcitalianità che nessun ipotetico verdetto elettorale può certo cancellare nello spazio di qualche mese. Per questa ragione, anche i sondaggi mostrano che non porta lontano la scelta del campo delle marachelle del costume per scardinare la sua popolarità, nel paese dove il moralismo è sempre l’anticamera dell’assoluzione: la si chiami tolleranza liberale o familismo amorale, il risultato è il medesimo. E il risultato è che il consenso, prima sociale e poi politico, del berlusconismo e del suo interprete è ancora considerevole, a prescindere dall’azione di governo, a prescindere dal divario tra il marketing del successo e il suo reale raggiungimento, a prescindere dal Pdl e dalla qualità della sua classe dirigente, a prescindere dagli errori e dalle incertezze che la voracità mediatica ha squadernato e inghiottito e sotterrato. Le contese elettorali, quelle passate e forse quella futura, gli eventi dove il Cav è solido interprete del modello della "campagna permanente", sono gli indicatori puntuali dell’eterna sorpresa che coglie chi immagina l’Italia non per com’è, ma per come vorrebbe che fosse. L’analisi del berlusconismo chiede buona sociologia, non teorie della catastrofe.

lunedì 18 ottobre 2010

Dennis Lind secures Formula Ford Festival honours


Dennis Lind has been crowned the 39th Formula Ford festival winner after a lights to flag victory in the Duratec class at Brands Hatch today (Sunday).
Lind made a great start to the deciding race along with Scott Pye while Scott Malvern moved up to third on lap three. Lind moved clear at the front, and set the fastest lap while clear of his opposition. He had to keep a watchful eye over Scott Pye though, who began to close in the middle stages of the race. The Dane held his nerve though to add his name to the illustrious list of Festival winners, with Pye finishing second. Tio Ellinas claimed the final spot on the podium, with Scott Malvern fourth. Elsewhere, Josh Hill finished seventh after a trying weekend that saw him black flagged in the second semi final for ignoring a drive through penalty.
There was drama before the race even began as Peter Dempsey pulled off on the warm up lap with a suspected drive shaft problem, while Scott Malvern lost third place on the final lap after running wide exiting Clearways. Zetec honours were claimed by Julian Hoskins, with Neville Smyth the winner of the Kent category.