Proprio partendo da un paragone d’accoglienze: da Fiumicino. Dall’atterraggio dei nostri azzurri stanchi e inaciditi da un’eliminazione brutta, anzi orrenda: si temevano contestazioni, e invece fu il quasi nulla, un’ostentata e ostile indifferenza degli italiani rispetto a una squadra quasi fotocopiata dal campionato del mondo vinto quattro anni prima, ma invecchiata nella biografia e nello spirito. Quasi scesa in Sudafrica a timbrare il cartellino del prepensionamento. A tutti quanti, osservando l’Italia, era venuta in mente la metafora della nazionale di calcio come specchio di un paese fermo, bloccato, incapace o persino refrattario al cambiamento, all’iniezione di forze fresche, a quella dinamica del ricambio che divide da sempre le nazioni in crescita da quelle che osservano immobili il proprio capitombolo in seconda classe. E così, tutti quanti, abbiamo trascorso il mese di giugno a guardare partite accontentandoci di tifare là dove militano i giocatori della propria squadra del cuore, riflettendo pure sul fatto che sulla vetta della Champions è salita una squadra che di italiano ha solo il presidente.
Ebbene, la Spagna che ha vinto il Mondiale, sia pure in una finale bruttarella, racconta in termini di simboli ed emozioni l’esatto opposto, e per più ragioni tutte messe assieme. C’è il quadro hd che fa già antologia dell’immagine: lo scatto sfrontato di Casillas. C’è il nome e l’apoteosi del colore, le “Furie rosse” evocano la velocità, l’intrepidezza, l’intraprendenza, il dinamismo, la brama di successo, lo scatto semmai del rosso Ferrari, la giovinezza che bussa alle porte della Storia. E poi, c’è che la Spagna è una nazionale davvero nazionale, costruita su ragazzi allevati nei vivai, nel calcio duro e meritocratico, proprio quando le scuole di calcio italiane annaspano nella nebbia dell’impotenza. Ragazzi allevati, pur nella lacerante storia spagnola che articola mozioni e rimozioni, a pane e hispanidad: sgambettatori del pallone, strapagati certo, epperò pieni nel nome e nel cognome di quel filo di identità che tutto tiene nella memoria nazionale. E tutto questo, perché le cose non arrivano mai a caso, accadeva mentre la Corte costituzionale spagnola stabiliva che non sussistono le basi giuridiche per definire la Catalogna una nazione: e attenzione, parliamo della Catalogna, non della Padania.
La Spagna attraversa un momentaccio, gli anni del miracolo iberico sono tristemente alle spalle, la crisi economica morde le speranze e affoga una generazione nel baratro torbido della disoccupazione, eppure è anche da eventi come questo, dal combustile che producono a beneficio dei sentimenti collettivi, che si ritrovano le energie. Persino Zapatero ha scovato una briciolina di carisma, affermando che la Rioja «ha reso felice tutta la nazione» (quando un qualsiasi nostro presidente del Consiglio avrebbe detto “paese” e non “nazione”, con tutto ciò che questo ci racconta nel come percepiamo il sentimento d’appartenenza). Certamente, la Rioja da oggi diventerà un poderoso strumento di marketing del rilancio d’immagine della Spagna, il turbo a cui allacciare le cinture della speranza di riscatto. Ma se il calcio è, perché lo è, una delle frontiere dell’immaginario, è giusto e naturale che quella coppa alzata verso l’alto si faccia presto simbolo di una nuova primavera di giovinezza spagnola.