mercoledì 17 novembre 2010

Diffidate degli zeloti antiberlusconiani, l’Italia è ancora pazza del Cav

Quando si cominciano a ritirar fuori, per parlare della nostra condizione politica presente, date cruciali tipo il 25 aprile, il 25 luglio o l’8 settembre, mischiando il grano della tragedia con il loglio di schermaglie dove per fortuna i morti e i feriti sono simulazioni giornalistiche, succede che arriva la confusione. E ogni volta che si parla del destino del Cav, dal governo Dini a oggi, dal 1996 al 2010, questa tentazione scatta puntuale. Di qua l’Italia da liberare, di là la libertà da difendere, di qua le ragioni della politica normale, di là le rivendicazioni della sovranità popolare, golpe telecratico di qua, golpe tecnocratico di là. Da quindici anni si bisticcia, e si prospettano (ricordate il 2006?) mattanze simboliche, eppure le bocce sono ancora ferme al bipolarismo per come l’abbiamo finora conosciuto. Cav o anti-Cav, siamo sempre qui, a girare attorno a una boa consumata. E quindi, per non correre il rischio che il pubblico dibattito si riduca a un conflitto tra opposte allucinazioni, ovvero tra visioni a ideologia facile e biodegradabile sconnesse dalla realtà, il primo rischio da scansare è la faciloneria: se è incauto dire, insomma, che in Italia tutto va bene perché tutto deve andare bene, è altrettanto incauto fare falò di sedici anni di seconda Repubblica e gettarla nel cestino delle intenzioni andate a male. Eppure, questo è il rischio in cui può incorrere quell’eccesso di zelo antiberlusconiano, assertivo, a tratti goliardico e quasi controfattuale, che, un poco ovunque, pare aver acceso micce e focolai di attivismo, ravvivando tra l’altro sentimenti opposti e speculari, e altrettanto insostenibili secondo ragione. Ci sono alcuni punti, importanti e dirimenti, che non possono essere sottovalutati alla prova di un’analisi serena. In primo luogo, si fa ancora l’errore di considerare il berlusconismo un fatto politico o solo politico, una variante del leaderismo dunque risolvibile e solubile nel liquido di opzioni governative o parlamentari, quando invece il berlusconismo è un fenomeno sociale televisivo, calcistico, imprenditoriale, simbolico, radicato nell’immaginario italiano a partire dagli anni Ottanta. È il racconto ottimistico dell’Italia che ce la può fare dentro e fuori il perimetro del rispetto delle regole, della narrazione rassicurante, dell’individualismo che però mai sfida i luoghi comuni degli italiani brava gente, della sconnessione tra retorica dei valori e comportamenti quotidiani, dell’amore per le vecchie zie longanesiane. La sua componente politica è solo una faccia e, forse, non quella principale. Il Cav interpreta e trasfigura una tipologia di italiano, una variante diffusa di arcitalianità che nessun ipotetico verdetto elettorale può certo cancellare nello spazio di qualche mese. Per questa ragione, anche i sondaggi mostrano che non porta lontano la scelta del campo delle marachelle del costume per scardinare la sua popolarità, nel paese dove il moralismo è sempre l’anticamera dell’assoluzione: la si chiami tolleranza liberale o familismo amorale, il risultato è il medesimo. E il risultato è che il consenso, prima sociale e poi politico, del berlusconismo e del suo interprete è ancora considerevole, a prescindere dall’azione di governo, a prescindere dal divario tra il marketing del successo e il suo reale raggiungimento, a prescindere dal Pdl e dalla qualità della sua classe dirigente, a prescindere dagli errori e dalle incertezze che la voracità mediatica ha squadernato e inghiottito e sotterrato. Le contese elettorali, quelle passate e forse quella futura, gli eventi dove il Cav è solido interprete del modello della "campagna permanente", sono gli indicatori puntuali dell’eterna sorpresa che coglie chi immagina l’Italia non per com’è, ma per come vorrebbe che fosse. L’analisi del berlusconismo chiede buona sociologia, non teorie della catastrofe.

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