mercoledì 24 novembre 2010

Il fango non c'entra, è la macchina dell'odio che ci invita allo scannatoio

Il fango non c’entra. Il fango, se c’è, lo puoi togliere di dosso, è un elemento che ti si appiccica addosso ma non penetra a fondo. Insudicia ma non ferisce. Colpisce ma non morde, perché col tempo il fango, se è fango, si indurisce e cade da solo. E invece c’è un’altra macchina che si è messa in moto in questa stagione sciagurata e tellurica della politica italiana. È la macchina dell’odio. Messa in moto in un clima che ha fatto schizzare la violenza verbale a temperature insostenibili. Alimentata nell’altoforno di uno scontro ideologico orbo di ideologia. Valorizzata da centrali del linguaggio che, consapevolmente, promuovono l’equiparazione simbolica tra l’arena politica e l’osteria, e nell’osteria la barriera tra addetti ai lavori e pubblico si frantuma, al bar dello sport godiamo tutti a crocifiggere l’allenatore. Rilanciata da Internet e in particolare dai social network, discariche senza rete e senza diaframma della prossimità, dove chiunque si sente titolato a esercitare la più disinibita arte dell’insulto: le parole, veicolo del lògos, si trasformano in proiettili di cartucciere distribuite senza licenza. Una macchina stimolata dalla riduzione del conflitto politico a una lotta personalistica che semplifica la comprensione delle scelte politiche gettando in prima linea i corpi, gli attributi individuali, la vita privata, i nomi propri al posto dei cognomi. Una macchina che sostituisce le complicate alchimie ideali e parlamentari, che richiedono il tempo e misura per essere comprese, con la legge del beduino, quella per cui il nemico dell’amico è mio nemico, e il nemico del mio nemico è mio nemico. La lotta tra partiti diventa una tenzone tribale che la macchina dell’odio si occupa di dirigere con il suo arsenale di concetti ipersemplificato. La brutalizzazione dello scontro amico/nemico si fa linfa di senso, l’avversario diventa il barbaro con cui nulla si condivide, né il linguaggio, né le regole, né lo stile, sul ring tutto è permesso – l’insulto, la diffamazione, la degradazione personale, i sigilli di infamia - perché sono saltati tutti i punti di riferimento. La macchina dell’odio sfrutta i meccanismi della "dissonanza cognitiva": tutto ciò che serve a screditare il nemico viene elevato a paradigma e proposto come chiave di interpretazione quotidiana degli eventi, tutto ciò che falsifica il paradigma viene nascosto o presentato come prodotto biforcuto del linguaggio del nemico, che è sempre un linguaggio falso.

Il terremoto politico degli ultimi mesi ha insinuato i meccanismi della macchina dell’odio nella piega di antiche amicizie, di sodalizi consolidati, di tensioni ideali improvvisamente scopertisi poco più che case di cartapesta, buttate giù dal soffio di un aggettivo malefico, una scelta non condivisa, una diversa valutazione sullo stato di salute della maggioranza di governo o dell’Italia. L’amico di un tempo diventa all’improvviso servo, servo sciocco, cameriere, nemico per la pelle, vittima da scannare e il suo scalpo il trofeo da gettare sul tavolo al centro dell’osteria. In questo scenario sboccia in forma quasi naturale, ovvia conseguenza di questa catastrofe linguistica, la pianta velenosa di termini pericolosissimi: tradimento e guerra civile. L’amico diventa traditore, addirittura «traditore della patria», bandito dai tratti deformati. A destra, tradimento e guerra civile sono termini pericolosissimi. Evocano rimossi mai troppo rimossi, il vocabolario di ferite antiche e simboli mortiferi, l’odore sanguinolento dello scannatoio. La macchina dell’odio questo lo sa e sobilla questa mobilitazione del risentimento, strappa idee e corpi alla normale dialettica politica e li ripresenta nella forma ultimativa dello scontro con il nemico oggettivo. Prima regola: il nemico oggettivo va eliminato, e il suo ricordo cancellato dall’album di famiglia. La macchina dell’odio è un agente inquinante che uccide la politica con la scusa di esaltare le passioni.

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