La
valigia non sarà più di cartone, ma avrà le rotelle. Il viaggio in
treno di 48 ore sarà sostituito da un volo low cost, magari da aeroporti
scomodi e a orari infami. E al posto delle melanzane sott'olio della
mamma si avrà diritto a una pizza riscaldata al micro-onde dalla
hostess. Lo si potrebbe chiamare «Pane e cioccolata 2.0», un fenomeno
che non era mai veramente andato via ma ora riemerge. Gli italiani
tornano verso i Paesi di lingua tedesca. Non lo fanno solo quelli che
per brevità e autofustigazione chiamiamo «cervelli», come se tutti gli
altri non lo avessero. Lo fanno le ragazze e i ragazzi di quella che
chiamiamo «generazione 2.0», per non definirla più propriamente
«generazione 35%» (di disoccupati).
I dati della Bundesagentur für Arbeit,
l'agenzia tedesca del lavoro, lasciano pochi dubbi sul fatto che si
tratti di un fenomeno strutturalee non di un blip su un andamento per il resto piatto.
L'accelerazione, dal 2009 al 2011, è netta. La sostanza è che in questi
due anni l'aumento dei lavoratori italiani in Germania, in percentuale,
è pari a quello degli lavoratori in arrivo dalla Grecia. Più 6,4% per
questi ultimi, più 6,3% per gli italiani. Alle spalle gli ellenici hanno
un Paese nel quale la disoccupazione ufficiale è attorno al 23%, mentre
in Italia supera appena il 10%. Ma in entrambe le economie solo un
cittadino su tre ha effettivamente un posto, segnala Eurostat, dunque
l'andamento parallelo nelle migrazioni verso Nord non è poi così strano.
Soprattutto, il ritmo dei flussi verso la Germania appare in crescita sempre più rapida sia per gli italiani che per i greci,
ma anche per spagnoli e portoghesi. Gli europei del Sud riprendono le
strade battute dai loro nonni, per le stesse ragioni. All'inizio della
crisi, nell'anno di crollo seguito al crac di Lehman Brothers, era un
piccolo rivolo di uscite (più 1,7% di italiani e spagnoli in Germania
nel 2010). Nel 2011 è diventato un flusso pronunciato, più 4,47%
l'Italia e anche di più Spagna, Grecia o Portogallo. E quest'anno sembra
un'esplosione dall'Italia verso la Repubblica federale di persone in
cerca di lavoro. La Bundesagentur für Arbeit segnala 189.299 lavoratori
italiani in regola con i contributi in Germania nel 2011 (8000 in più
sul 2010) e ben 232.800 a maggio di quest'anno, un'impennata addirittura
del 22% forse però dovuta in parte a un effetto ottico delle
statistiche: possibile che molti lavorassero già nella Repubblica
federale, ma sono stati regolarizzati solo negli ultimi mesi. Come che
sia, è un'inversione di tendenza. Dai tempi di «Pane e cioccolata» in
versione originale e fino a metà dello scorso decennio, era proseguito
il graduale declino nella presenza dei lavoratori italiani in Germania.
Il 2005 ha segnato il minimo a 171 mila. Poi il malessere economico
decennale a Sud delle Alpi e gli choc successivi hanno provocato la
ripresa delle abitudini di un tempo.
Pressati dal boom dell'export e dal
declino demografico, i tedeschi fanno quanto possono per incoraggiare
l'arrivo di nuova manodopera. Non è più il tempo della banda di
Paese che accoglieva alla stazione i turchi destinati alle fabbriche del
miracolo economico. Ma i distretti della meccanica, soprattutto in
provincia, hanno sete di nuovi operai da formare. Spiegel scrive che
solo nella regione metropolitana del Reno-Neckar, a sud-ovest, si
prevede una carenza di manodopera specializzata per 35 mila unità entro
il 2013. La Zdh, la confederazione tedesca dei mestieri che rappresenta
elettricisti, edili o commercianti, è arrivata a contattare le
congregazioni religiose in Spagna perché convincano i giovani
parrocchiani a trasferirsi nella provincia profonda tedesca nell'Emsland
o a Mannheim.
Molti preferiscono Berlino, che forse offrirà meno opportunità di lavoro ma ha locali più interessanti.
Eppure questa recessione così feroce, così apparentemente cronica,
spinge sempre di più un'intera generazione di italiani, spagnoli,
portoghesi e greci al pragmatismo. Le sedi del Goethe Institut sono così
subissate di richieste d'iscrizione che - fa sapere la scuola di lingua
- «in molte sedi si è dovuta aumentare l'offerta». Come mostra il
grafico qui sopra, l'aumento è a doppia cifra in tutta l'Europa del Sud.
Italia inclusa. Dice il presidente del Goethe Klaus-Dieter Lehmann:
«Sono i giovani che vogliono i nostri corsi, ma non per leggere Schiller
in originale: vogliono migliorare le loro possibilità di trovare un
lavoro».
Il Goethe Institut ha studiato con cura l'antropologia dell'iscritto medio sudeuropeo di nuova generazione.
«Italia: principalmente giovani uomini, in maggioranza con una buona
istruzione, che vogliono migliorare le loro prospettive di lavoro» (gli
spagnoli invece, «fra i 20 e i 40 anni»). Non è uno sforzo inutile. Se
qualche anno fa i professori insegnavano il vocabolario della teologia,
della filosofia o della poesia romantica, adesso hanno introdotto corsi
per il tedesco del settore meccanica e auto: lo hanno fatto per esempio a
Torino, dove nell'ultimo anno le iscrizioni al Goethe sono cresciute
del 26% (anche perché l'Italdesign di Giogetto Giugiaro è passata alla
Volkswagen).
Altrove i corsi del Goethe, da Napoli a Barcellona, si concentrano sulle parole utili per infermieri, medici o laureati in legge.
Nel capoluogo campano le iscrizioni sono cresciute più degli
investimenti in Cina, e così anche a Milano; solo a Roma, in tutta
l'Europa del Sud, sono rimaste praticamente piatte. Ma forse è proprio
questo ciò che i tedeschi non potranno mai capire dell'Italia.
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