La storica notte del 5 novembre 2008, i due candidati alla carica presidenziale, dopo una agguerrita campagna elettorale, l’uno da vincitore e l’altro da sconfitto, hanno dato prova di un ammirevole fair-play, tale da poter dire che, la loro, sia stata quanto di più vicino a una competizione democratica. Abbiamo, infatti, ascoltato un Obama trionfante congratularsi con il suo avversario elencandone i meriti e un Mac Cain deluso, ma dignitoso, ammettere i suoi errori e, particolare degno di nota, riconoscere solennemente Obama come suo Presidente. Significativo, a questo proposito, è stato l’elegante «please, please», accompagnato da un pacato gesto delle mani, con il quale Mac Cain ha zittito alcuni suoi sostenitori che si erano lasciati andare a cori di disapprovazione contro Obama. E, come corollario di questo reciproco rispetto, i due competitori si sono impegnati a collaborare per il bene del proprio Paese.
Si tratta di scene a cui noi italiani non siamo abituati e, personalmente, le ho vissute con sentita ammirazione, ma una volta passato il coinvolgimento emotivo ho riflettuto sulle motivazioni che sono alle base di comportamenti tanto esemplari.
«La risposta è la voce di giovani e vecchi, ricchi e poveri, Democratici e Repubblicani, neri, bianchi, ispanici, asiatici, nativi d’America, gay, eterosessuali, disabili e non disabili: tutti americani che hanno inviato al mondo il messaggio che noi non siamo mai stati un insieme di Stati Rossi e Stati Blu. Noi siamo e sempre saremo gli Stati Uniti d’America», afferma Obama da Chicago, mentre Mac Cain, da Phoenix, con toni meno commoventi, ma in maniera altrettanto eloquente, incalza: «Quali che siano le nostre differenze, siamo tutti americani». Ecco quale è il segreto della democrazia americana: il popolo americano.
Il profondo sentimento di appartenenza alla nazione, pervaso da una rigida logica protestante, è il collante di una società estremamente eterogenea e da esso promana una sentita, ma non cieca, fiducia nelle istituzioni, la cui legittimazione proviene dal basso tramite continue verifiche elettorali. Spesso ci si dimentica che i cittadini americani non votano solo il Presidente: certamente, l’enorme affluenza alle urne, in occasione dell’ultima tornata elettorale, è un dato che ha fatto storia a dispetto di una partecipazione elettorale generalmente bassa, ma il cittadino americano è chiamato periodicamente ad esprimere il proprio voto per il rinnovo del Congresso, delle istituzioni statali e locali e per le primarie di partito.
Questi meccanismi, insieme ad una saggia ingegneria istituzionale, consentono una buona tenuta e un buon funzionamento delle istituzioni democratiche, mettendole nelle condizioni di superare anche gravi momenti di crisi. Naturalmente la democrazia americana non è esente da contraddizioni, ma in questa sede credo che sia più interessante osservarne i punti di forza, spesso adombrati da un cieco antiamericanismo. Non si riuscirebbe altrimenti a spiegare come un afroamericano sia stato eletto alla più alta carica di un Paese in cui, storicamente ieri, vigeva l’apartheid. Si tratta di un’ulteriore conferma della forza della coesione che, in questo caso, si esplica in una straordinaria capacità di assorbire le trasformazioni sociali, secondo un processo continuo, seppur non privo di fratture anche molto radicali.
Ora, l’intento di questa analisi, non è certamente quello di tessere le lodi degli Stati Uniti, bensì partire da queste osservazioni per riflettere sui motivi della scarsa fede che i cittadini italiani hanno nelle istituzioni che dovrebbero rappresentarli.
É sufficiente attribuire la responsabilità di questa grave falla all’incapacità della nostra classe dirigente?
Ma se la democrazia è il governo del popolo, mi chiedo: l’Italia ha un popolo? Per dirla alla D’Azeglio, li abbiamo fatti gli italiani?
Si tratta di scene a cui noi italiani non siamo abituati e, personalmente, le ho vissute con sentita ammirazione, ma una volta passato il coinvolgimento emotivo ho riflettuto sulle motivazioni che sono alle base di comportamenti tanto esemplari.
«La risposta è la voce di giovani e vecchi, ricchi e poveri, Democratici e Repubblicani, neri, bianchi, ispanici, asiatici, nativi d’America, gay, eterosessuali, disabili e non disabili: tutti americani che hanno inviato al mondo il messaggio che noi non siamo mai stati un insieme di Stati Rossi e Stati Blu. Noi siamo e sempre saremo gli Stati Uniti d’America», afferma Obama da Chicago, mentre Mac Cain, da Phoenix, con toni meno commoventi, ma in maniera altrettanto eloquente, incalza: «Quali che siano le nostre differenze, siamo tutti americani». Ecco quale è il segreto della democrazia americana: il popolo americano.
Il profondo sentimento di appartenenza alla nazione, pervaso da una rigida logica protestante, è il collante di una società estremamente eterogenea e da esso promana una sentita, ma non cieca, fiducia nelle istituzioni, la cui legittimazione proviene dal basso tramite continue verifiche elettorali. Spesso ci si dimentica che i cittadini americani non votano solo il Presidente: certamente, l’enorme affluenza alle urne, in occasione dell’ultima tornata elettorale, è un dato che ha fatto storia a dispetto di una partecipazione elettorale generalmente bassa, ma il cittadino americano è chiamato periodicamente ad esprimere il proprio voto per il rinnovo del Congresso, delle istituzioni statali e locali e per le primarie di partito.
Questi meccanismi, insieme ad una saggia ingegneria istituzionale, consentono una buona tenuta e un buon funzionamento delle istituzioni democratiche, mettendole nelle condizioni di superare anche gravi momenti di crisi. Naturalmente la democrazia americana non è esente da contraddizioni, ma in questa sede credo che sia più interessante osservarne i punti di forza, spesso adombrati da un cieco antiamericanismo. Non si riuscirebbe altrimenti a spiegare come un afroamericano sia stato eletto alla più alta carica di un Paese in cui, storicamente ieri, vigeva l’apartheid. Si tratta di un’ulteriore conferma della forza della coesione che, in questo caso, si esplica in una straordinaria capacità di assorbire le trasformazioni sociali, secondo un processo continuo, seppur non privo di fratture anche molto radicali.
Ora, l’intento di questa analisi, non è certamente quello di tessere le lodi degli Stati Uniti, bensì partire da queste osservazioni per riflettere sui motivi della scarsa fede che i cittadini italiani hanno nelle istituzioni che dovrebbero rappresentarli.
É sufficiente attribuire la responsabilità di questa grave falla all’incapacità della nostra classe dirigente?
Ma se la democrazia è il governo del popolo, mi chiedo: l’Italia ha un popolo? Per dirla alla D’Azeglio, li abbiamo fatti gli italiani?
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